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Linea d'orizzonte di Gabriele Tinti

Bruno Marcucci opera con l'obiettivo di creare una esperienza estetica capace di addensare su di sé energie differenti. Una ricerca, la sua, che da tempo ha intrapreso la via della libera combinazione tra linguaggi. Via impervia ma che, nondimeno, é, per ogni artista d'oggi, obbligata. Via necessaria in un'epoca al di la e oltre il post-moderno e la post-metafisica, in un'epoca in cui anche l’ansia del nuovo propria della modernità si è venuta placando in un sentimento, dolce e terribile ad un tempo, di "fine della storia". Il suo progetto “Linea d'orizzonte” risponde a questa complessità e a questo bisogno. Concepito tra il 2004 e il 2005, ha raggiunto oramai una maturità esemplare nella sicurezza di un percorso trovato, che l'artista ogni volta tensivamente ridefinisce e sottopone a verifica. Questa mostra è prodotto di un accumulo di prove e di esperienze. Perché “Linea d'orizzonte” è una sinfonia entro la quale confluiscono - naturalmente con i loro, rispettivi, specifici linguistici - la scultura cosi come l'installazione, la grafica come la pittura. È una sinfonia (il sostantivo è il suo, trovato distrattamente, conversando con lucidità critica attorno a sé) entro la quale i piani si confondono, stanno l'uno nell'altro, collassano - si ergono. Veniamo collocati sotto i due metri - in apnea. Tutti. Spettatori soltanto, pure talmente coinvolti. Si rimane così. A guardare. A scoprire che cosa fa l'uomo quando stupisce e addolora. Di come lo fa di fronte ad un'opera quando questa ha la forza di rappresentarci tutta la densità e i significati d'un confine, d'un termine, d'un limite. Che l'artista ci mette lì, di fronte, per parlarci di noi e della nostra epoca. Al di là del colore e delle forme. Dell'arte. Perché siamo noi a naufragare anche se è quell'orizzonte ricreato e posto così in alto a far incombere la degenerescenza dell'oggi, a farcela sentire addosso. Spettatori sì, naturalmente, pure spettatori colpevoli. Perché al fondo dell'opera di Marcucci c'è tutta questa malinconia propria d'ogni umana rappresentazione che si scopre fallace ma che non per questo abbandona l'agonismo del credere. Nella sua opera c'è, in controluce, un grande amore per l'uomo nonostante tutto, per l'uomo anche di oggi. Le sue sono forme (lui le chiama “iceberg”), ideogrammi che talvolta assumono la configurazione di un architettura minacciosa, altre volte di segno minimale, altre ancora di leggera gestualità (quanto Oriente c'è in tutto ciò? Quanta confusione di piani, di mondi, d'amori nella sua opera?), comunque sia sempre di qualcosa d'altro da sé, secondo un processo immaginifico che nasce da una grande sapienza tecnica. La sua, nello specifico, fatta di una miscela trovata che mescola tempera al silicone a pigmenti in polvere, colore alla materia adesiva che ne funge da collante ma anche da spessore. La sua pittura, proprio per questo, sa di realtà e di presenze. D'uomini, al fondo di ogni altra cosa. Marcucci non la costringe, la lascia dolcemente debordare. Per farla finire, quasi sempre, in installazione ed in scultura. La sua pittura crea ambienti, una situazione progettata capace di condurci poeticamente a guardarci dentro. Per riuscire a provare ancora qualcosa.

 

© Bruno Marcucci

 

 

    scritti di:

  • Gabriele Tinti